Puccio d’Aniello (Pulecenella), Zeza e… Zezella, ‘a figlia da’ ‘mmaretà
di
Dora Liguori
Farsa comica con musiche su un canovaccio del 600 napoletano
Farsa in due parti di Dora Liguori
Il personaggio o la maschera di Pulecenella, con ogni probabilità, trae le sue origini da Maccus, personaggio delle “Atellane” risalente al IV secolo a.C., maschera ritrovabile, sia pure con altre sfaccettature, anche nelle “Cavaiole”. In ogni caso il Pulcinella che conosciamo o la sua maschera, nasce compiutamente, alla fine del seicento, a Napoli, dalla fantasia del capuano Silvio Fiorillo (attore e scrittore) che individua, in Acerra, il luogo natale di Pulecenella (Puccio d’Aniello).
Il personaggio si afferma nel tempo (soprattutto alla metà del settecento) sino a diventare il protagonista, unitamente alla moglie Zeza (Lucrezia) e alla figlia Zezella (Vicenzella), di numerosissime farse, sempre ispirate alle vicissitudini della povera gente, condite però dalla innata arguzia e dalla comicità dirompente insita nel popolo napoletano. Dette farse si limitavano ad essere dei canovacci che, lasciati, poi, alle capacità d’improvvisazione degli attori, divenivano esilaranti spettacoli teatrali, eseguiti in appositi luoghi chiusi, non ancora propriamente teatri, e più spesso nelle grandi piazza (Napoli-Largo di Castello), con testi carichi di doppi sensi, scabrosi e scollacciati, ma anche pervasi e illuminati dalla tipica saggezza popolare. Infatti, con l’avvento di Pulecenella, Napoli trova, in questo personaggio, l’essenza della sua anima partenopea, un qualcosa che ha consentito ai napoletani di sopravvivere a tutto e a tutti: disgrazie, fame e colera, invasioni straniere comprese. Fondamentalmente Pulcinella è un filosofo!
Le farse riguardanti Pulcinella e la sua sgangherata famiglia, divenute sempre più popolari, con il bel tempo uscivano dal chiuso per dilagare, come già detto, nei cortili nobiliari o nelle pubbliche piazze, luoghi frequentati soprattutto da un popolino che non di rado amava interloquire con gli attori, come dire: teatro nel teatro. Infatti i testi delle farse non facevano altro che rispecchiare, in forma grottesca ed esagerata, quanto di norma avveniva nella gente comune; un motivo per il quale la maschera di Pulecenella, essere sbruffone, a volte vigliacco, con poca voglia di lavorare e, per questo, spesso mariuolo e malandrino ma, nell’intimo, uomo libero e orgoglioso della sua napoletaneità, venne subito amata dal popolo che, riconoscendosi in lui, divenne partecipe e sodale delle sue numerose sventure, tutte incentrate su qualcosa di molto conosciuto e praticato a Napoli: un’ eterna fame atavica.
La presente farsa “La Zeza” ovvero: “Puccio d’Aniello (Pulecenella) a mugliera Zeza e Zezella, ‘a figlia d’ammaretà”, che si avvale di musiche del seicento, è la ricostruzione di vari canovacci che vanno dal seicento sino alla metà dell’ottocento, all’interno dei quali si racconta di un Pulecenella che, nella sua “ingenuità”, pensa di far prevalere il suo volere nei confronti della moglie Zeza e della figlia Zezella. L’uomo, in un primo momento, è sconfitto dalle due donne, ma, essendo appunto un filosofo, accoglierà la disfatta con rassegnazione, soprattutto perché presto gli si presenterà l’opportunità di rifarsi. Alla fine, a perdere o a vincere saranno tutti. Infatti, a guidare gli avvenimenti verso una qualche soluzione sarà, ancora una volta, la logica comune di sgominare l’eterna “fame” che incombe e che tutti, in perfetto accordo, desiderano di allontanare. La vicenda, ancorché tutti gabbati, si chiude in gioia avendo, i protagonisti, ancora una volta, trovato chi pagherà… la cena presente e magari quella futura.
Dora Liguori, autrice del testo e della regia, nel riproporre la farsa, ha inteso riprendere gli archetipi della commedia dell’arte e, pertanto, ricreare una regia quasi priva di sovrastrutture, ha inteso ritornare all’essenzialità del teatro seicentesco popolare, basato soprattutto sulla parola e sulla gestualità degli attori. Infatti, nel seicento, lo spettacolo, pur provvisto di un testo ben costruito, si affidava alla bravura dei teatranti e alle loro capacità istrioniche, attori che sapevano, estemporaneamente, arricchire il testo, tanto da creare ogni sera il miracolo di una compiuta genialità teatrale che non avrebbe più avuto epigoni nel tempo.
